“Stop talking dirty” – lo stigma sociale nelle dipendenze da sostanze
L’articolo “Stop talking ‘dirty’: clinicians, language, and quality of care for the leading cause of preventable death in the United States” di Kelly, Wakeman e Saitz, comincia con una interessante provocazione: perché di un paziente diabetico si dice: “ha un elevato livello di glucosio”, mentre di una persona che fa uso di droghe si dice che ha le urine “sporche”?
Non è una novità che sulla dipendenza da sostanze gravi un forte stigma sociale, ma anche il modo in cui i clinici e i professionisti della salute parlano di questa problematica ha un suo peso. Il pregiudizio sulle tossicodipendenze (alcolismo compreso) che le vede come un “vizio” e non come una malattia psichica, ha una importante ripercussione anche sul numero di persone che decidono di chiedere aiuto, di molto inferiore rispetto a coloro che soffrono di dipendenza.
Secondo gli autori, ci sono due fattori che alimentano lo stigma sociale in maniera significativa: il primo è “l’attribuzione di causa” e la seconda è “la controllabilità”.
Lo stigma sociale decresce quando si pensa alla dipendenza come ad un qualcosa di cui chi ne è affetto non ha “colpa” ed anche quando si capisce che, a disturbo instaurato, il comportamento di assunzione non è controllabile.
La ricerca ha dimostrato chiaramente l’influenza della genetica nell’instaurarsi di una dipendenza (sebbene “vulnerabilità genetica” non sia sinonimo di “predestinazione a contrarre un disturbo”) senza contare gli effetti che l’uso di droghe comporta sul sistema nervoso centrale, inficiando proprio la capacità di controllare l’uso nonostante le conseguenze negative che ha (e che sono ben chiare a chi usa le sostanze).
Anche il linguaggio clinico ha una sua importanza nel perpetrare o ridurre lo stigma sociale, a cominciare dall’uso di un’appropriata terminologia scientifica: i ricercatori mettono in luce che anche i clinici e i professionisti di più lunga esperienza possono avere atteggiamenti pregiudizievoli e stigmatizzanti quando si tratta di dipendenza, cosa che solitamente non vale per la maggior parte delle altre patologie mentali (nessuno chiamerebbe una persona che fa abbuffate di cibo “abusatore di cibo”). Non capita di rado di sentire rivolgere ai pazienti con disturbo da dipendenza da sostanze inviti a restare “puliti”. L’uso di simili termini evoca un implicito senso colpevolizzante e fa decrescere il senso di autoefficacia e di motivazione al cambiamento del paziente.
In definitiva, gli autori raccomandano di fare riferimento alle persone con dipendenza come “affetti da DUS”, non come “abusatori” o “dipendenti”.
Riferimenti
Kelly, Wakeman & Saitz (2015). Stop talking ‘dirty’: clinicians, language, and quality of care for the leading cause of preventable death in the United States. The American Journal of Medicine.